domenica 27 maggio 2012

professionalità

Mi disturba il notare quanto chiunque si approcci come prima occasione in ambito lavorativo ad uno sconosciuto, voglia apparire innanzitutto "professionale":

1 Che riguarda la professione, spec. quella esercitata: esperienza p.; albo p.; serietà p.

Sì, questa parola null'altro indica che la "serietà", l'essere distaccati, freddi, almeno ciò a mio personale parere.
E' un vero e proprio epurante della virtù della sincerità, dell'essere veri, genuini, spontanei, caldi, autentici, onesti, limpidi, in poche parole SE STESSI.

Dunque questa professionalità, di cui molti si ricoprono sino al soffocamento, è agli antipodi delle due parole suddette.
Per molti miei coetanei, devo ammettere con un inusitato dispiacere, potrebbe essere uno dei migliori pregi per indicare una persona, meglio ancora se la propria persona.
Per qualunque adulto rinchiuso nel suo piccolo mondo, limitato e severo, fatto di grandezza, potere, gloria, è inoltre impossibile comprendere la mia visione di chiunque si fregi di questa bandiera, di questa parola, di questo modo di mostrarsi (ovvero di sembrare, di apparire).

Professionalità rievoca nella mia mente solo una scia infinita di pessimi esempi del mondo lavorativo (forse presi un po' dalla TV ma in gran parte dal mio vissuto). Ho come un'immagine che pare chiara ma assolutamente inesplicabile: è come un ricordo nitido ma che non riesco a trasmettere in alcun modo all'esterno. E' come un puzzle i cui pezzi sono tutti presenti, anche se in maniera disordinata, ma di cui ho colto comunque la figura, l'essenza.
E' la mia visione individuale, ma allo stesso tempo autentica, e' un uomo in giacca, camicia ovviamente, e cravatta che si gingilla e gongola nel suo status di persona qualitativamente eccellente soltanto perchè ricollocata su di un gradino sociale più elevato rispetto, per esempio, ad un semplice facchino, e soltanto per il motivo di risiedere evidentemente in qualche ufficio ben illuminato ed arredato con interni di marche, le più costose. E' questa l'immagine che ho della "professionalità".

Per me essere professionali è l'antitesi del porsi dinanzi agli altri esattamente così come si è. Significa indossare una maschera, e a volte si deve farlo per tenersi stretto il proprio posto, ma esserlo a tutti i costi è indistinguibile dal sentirsi grandi, superbi, idoli, è insomma il contrario della modestia, dell'umiltà.

Ora, per quanto questa mia concezione possa esser distante dalla realtà, io non sceglierei mai questa parola per descrivermi in ambiente lavorativo. Preferisco parole come "corretta" o "brava", "competente".

Io sogno di un mondo in cui, particolarmente in ambiente di lavoro, ogni essere umano sia libero di essere se stesso, di essere triste, di esser eccessivamente felice ecc... Sogno di avvicinarmi ad uno sportello di qualsiasi ufficio ed imbattermi con una persona, degna di tal nome, e non di incappare nell'ennesimo pezzo inanimato di un'immenso ingranaggio meccanico, che (e per fortuna IO ne sono al corrente) è solo la facciata costruita ed effimera di una società.


Chissà su questo tema cosa mi dirà più avanti la mia mente.

martedì 15 maggio 2012

QUELLA CHE DIVENTA UNA MODA


Siamo esseri facilmente influenzabili, basti vederci quando pensiamo ad aggiustarci o quando camminiamo per strada che ci sfiorano mille pensieri, tutti e mille riguardanti il nostro modo di sembrare. Ebbene sì, perché esiste un modo di sembrare, noi non ci limitiamo mica all’essere, se mai dovessimo essere, noi vogliamo soprattutto sembrare, apparire. Apparire è quindi un’azione molto importante se non fondamentale per la vita di ogni essere umano, persino per chi si dice esule da ciò ed escluso a priori dalla massa di materialisti che oggi occupa per una gran parte questo mondo. Ciascuno ha in sé una cupa vocina che gli dice “ma se sono così io poi non piaccio, io devo essere a modo, proprio come il modo degli altri, io devo farmi i capelli così, sfiorarmeli lentamente in questo modo qui, io devo tenere il mento alto, guardare dritto negli occhi della gente, non distogliere mai lo sguardo, devo mostrarmi forte e spavaldo, noncurante forse è meglio, per non dire ch’io debba apparire come la celebrazione del menefreghismo. Insomma io devo essere in un certo modo e questo certo modo deve essere accettato da tutti, ma perché ciò sia possibile non mi resta che adottare un modo da tutti perseguito. Sarò proprio come gli altri, sarò come tutti, sarò uguale, così non mi potranno attaccare da alcuno spiraglio di incertezza, non avranno ragione d’attaccarmi, di schernirmi o emarginarmi, allontanarmi per qualche differenza, io sarò proprio come loro. Questo mi renderà forte e intoccabile. Non mi abbatteranno perché io mi mostrerò sempre a loro superiore ed inarrivabile”.

Questo nostro timore di essere soggetti alla xenofobia che sappiamo abitare le menti di chiunque, persino la nostra, non ci fa sembrar altro che robot, o meglio, automi prodotti in serie, prodotti di una catena di montaggio, prodotti di menti altre, le quali pensano forse di essere elementi esterni a questo ingranaggio malato e contorto, dal quale invece nessuno è escluso. E’ un gioco crudele del mondo umano, e forse è nato proprio per sua mano.

Ma com’è noto, checché noi ci si mostri forti, potenti, spavaldi ed inarrivabili, tutti, senza distinzioni, siamo al corrente della verità. La realtà è che il timore, la paura, rende deboli e capaci di vivere la nostra vita in una maniera a noi davvero poco idonea. A causa di questa paura ci sforziamo nel svolgere determinate azioni che reputiamo normali solo perché già eseguite da qualcun altro prima di noi. Ci spaventa la sola idea di tentare ciò che non è ancora su carta, di cui non esiste precedente.

Ci sono alcuni di noi, persone senza dubbio come tutte le altre, che sanno organizzarsi in piccoli o grandi gruppi ma che pensano di essere oltremodo differenti dalla massa. Ma la massa, di per sé, è un elemento inesistente, poiché ogni individuo compete esclusivamente di se stesso, e dei suoi stessi integri pensieri ha l’esclusiva.

Questi gruppi pocanzi nominati sono i gruppi che si chiamano sovversivi, nel senso che così si chiamano più che altro tra loro stessi, o peggio chiamasi anche: alternativi. Quest’ultima è’ una parola che in passato, durante il periodo della mia adolescenza, era davvero abusata, molto utilizzata anche da me stessa in primis. Ma dopo tutti questi anni (che tanti non sono ma che sono contrassegnati dal mio personale sacro passaggio dall’infanzia, all’adolescenza, all’età adulta) è adesso ormai scaduta nell’uso da teenager odierno, quanto mai odioso, e che ripudio in toto.

Questa brava gente, che lotta in continuazione, lotta continua quindi, e non si sa mai per cosa, pensa di fare innanzitutto il bene degli altri, non rendendosi magari conto di fare per prima cosa ed immancabilmente i propri interessi. Lottare significa (ahimè, è una cosa che non sopporto) principalmente mettersi in mostra, mettersi al centro dell’attenzione, e della massa guidata, e di quella contrastata. Poiché pur sempre di massa si tratta.
Questa gente qui, dalla sfolgorante leadership, non è capace neppure di intuire che quel “movimento” che ha dietro le proprie spalle e che ha forgiato impastando le menti dei propri uditori, non è null’altro che la nuova genesi d’una massa monopensiero, un insieme, divenuto inviolabile, di individui, potente e travolgente, insopprimibile e micidiale per il solo fatto d’essere un’agglomerazione. Senza contare che il monopensiero uccide la ragione, l’ammazza a sangue freddo e rende il movimento un moto violento e inafferrabile. Queste menti geniali capaci di animare tutto ciò hanno dunque solamente coltivato i semi d’oppio di quella che si può benissimo definire una “religione”.

E’ stato facile per molti lasciarsi “muovere”, tanto è quello a cui ci hanno abituati sin dalla nascita.
E’ stato facile per i malati di leaderismo richiamare a sé tante menti, poiché da queste loro azioni traggono linfa vitale necessaria per continuare il viaggio sul mondo.

Ciò che deve far pensare è la differenza, che in questi anni si è andata sempre più appiattendosi, tra la lotta simbiotica fatta col cuore e con la ragione, fatta per un amore senza corrispondenti, non per amor proprio, non per voglia di mettersi in mostra, parlo di quella lotta che ognuno svolge quotidianamente dentro sé in particolare, che ora è in procinto di scomparire perché di perduta importanza, e invece un’altra lotta molto  cara ai sudditi del potere, caratterizzati da una irritante determinazione nel volersi creare delle inimicizie, nel voler creare scompiglio, instabilità, violenza, per aver sempre più potere nelle proprie mani

Questa gente dalle basse qualità intellettuali (seppur di quantità si abbondi al giorno d’oggi), mi riferisco ai sovversivi di cui sopra, non fa che il gioco di quei sporchi capitalisti infami bramosi di danaro.

Diventa lapalissiano che ogni azione è potenzialmente una moda, una tendenza, ma il suo divenirlo o meno deriva dal nostro modo di impostarla. Basta leadership, basta portavoce, basta deleghe, ognuno di noi deve pensare di per sé, non invitare qualcun altro a farlo al posto suo.

Pensare non può divenire una moda, è cosa impossibile. Sarebbe come dover cambiare il proprio guardaroba ogni santo giorno. Quindi stop alla pigrizia neuronale, via invece a un po’ di sano ragionamento.