Erano le 01 e 16 minuti, era notte fonda, tre ragazzi
camminavano per strada, amici di una vita o amici da pochi minuti, neanche loro
sapevano più distinguerlo. Erano leggermente su di giri, ma ciò non lo si
evinceva da nulla, erano semplicemente un po’ più “sollevati” del solito da
qualsiasi problema ed anche un po’ più disinibiti. Camminavano per strada soli,
una strada che pur se statale risultava semi-deserta e semi-buia. Questi tre
ragazzi passeggiavano, camminavano, nel frattempo pensavano. Non sappiamo bene
a cosa pensassero, sappiamo soltanto che pensavano, e su questo non c’era
dubbio. Probabilmente chi al futuro prossimo, chi al futuro remoto, chi ai suoi
problemi, anzi un po’ tutti. Niente di irrisolvibile, solo ordinaria
amministrazione del tipo: che mi succederà? tra qualche anno come starò messo?
Ad un tratto passeggiando si trovarono a costeggiare un
immenso parco sul quale la strada si affacciava, e vi era un accesso principale
un po’ più avanti, costituito da qualche gradino (una ventina) per goderne
appieno della superficie. Per il resto si poteva ammirare bene dall’alto della
strada, ma mai quanto dall’alto dei balconi dei sesti e settimi piani dei
palazzi circostanti. Soltanto che la gente del posto, un po’ per inerzia nel
vederlo sempre, oramai abituata, non ci faceva più manco caso, non aveva più
quasi senso. Era una delle tante cose della vita alla quale ti assuefai e non
alla fine non la noti neanche più.
Questi ragazzi, nella loro reciproca solitaria compagnia (l’ossimoro
si sposa perfettamente con la situazione interiore che pur tre giovani ragazzi
assieme possono avere) anche se tra una battuta e l’altra, non poterono
oltrepassare questo parco senza lasciarsi andare ad un’idea malsana che sarebbe
stata fonte di disprezzo nei loro confronti da parte dei sonnolenti e oramai
dormienti abitanti degli immobili nei paraggi. D’improvviso i tre ragazzi
presero a gridare, uno dopo l’altro, la sola vocale che evidentemente
conoscevano: “oooooooooooooooH” – “ooooooooh” “oooooooooooooooooooooh”.
Per gli auditori potea sembrare un gioco fine a se stesso,
vuoto, dispersivo, idiota, fastidioso, ma per gli urlatori era un potente
sfogo, uno schiaffo al futuro ed un fanculo al passato. Era un urlare: “io sono
qui, adesso, è questo ciò che conta!” – “io sto vivendo, fanculo mondo!” – “ditemi quello che volete, venitemi pure
contro, io sono qui e non me ne importa niente” – “scusatemi se sono nato, ma
dovrete sorbirmi così come sono”. Erano sfoghi apparentemente limpidi, chiari,
facili, senza un’ombra di temute ripercussioni, men che meno di ripensamenti o
pentimenti, di riflessioni, lo sfondo era però triste, o più che triste,
malinconico, alquanto romantico. Si celava dentro di loro null’altro che una
voglia intimamente insensata di attirare l’attenzione delle altre anime vaganti,
dei perché della gente, perché la risposta ai perché di tutti fosse una e una
soltanto. La solitudine doveva scomparire. Insieme si lotta meglio. Pareva essere
il pianto di un cane randagio solitario o d’un piccolo branco. Dal parco si
levava la eco di queste urla forse d’aiuto. Alle prime impressioni scettiche e
malpensanti dei borghesi erano proprio urla di rompicoglioni che rompevano il
silenzio soave e delizioso della notte per inneggiare i loro slogan e imporre
le loro fastidiose quante arroganti presenze. Erano invece grida disperate d’aiuto
da parte di tre povere anime perdute in un mondo che tutt’oggi non riesce a
consacrare il senso della vita. Ma già lo conosce. È la compagnia, lo stare
assieme, l’amarsi.